17 maggio 2020 – Domenica VI di Pasqua (anno A) – Don Samuele
Sia lodato Gesù Cristo. Sempre sia lodato.
Domenica scorsa il libro degli Atti degli Apostoli ci ha aiutato a riviere la crescita dei ministeri dentro la comunità cristiana di Gerusalemme, ma anche dentro la Chiesa di ogni luogo e di ogni tempo, ed oggi ci invita a seguire il diacono Filippo fuori dalla cinta muraria di Gerusalemme, in Samaria, un territorio non proprio religioso, secondo gli schemi dei giudei, dedito a offrire parole che toccano il cuore e gesti che confermano le parole.
Il frutto della gioia
Il frutto di questa prima impresa di evangelizzazione è detto in poche parole: “E vi fu grande gioia in quella città”. Questo costituisce una forte provocazione, per noi e per la nostra attività evangelizzatrice, che talvolta, suscita noia, indifferenza, se non rifiuto nelle persone che incontriamo. E constatando questa situazione mi sorge spontanea una domanda. Non sarà proprio questa la causa di una vera e propria pandemia, più letale del coronavirus, che da anni insidia le società occidentali: il fatto cioè che siamo vestiti a festa, ma siamo incapaci di fare festa? Siamo inseguitori di gioia, e riusciamo facilmente a collezionare frustrazioni, delusioni, tristezza! Pensate come nella nostra società si mettono insieme sguaiatezza e tristezza, rumore, folla, e solitudine! Dove si va a trovare una felicità stabile e duratura? Nei suoi “Esercizi Spirituali” S. Ignazio di Loyola distingue con chiarezza tra due tipi di gioia:
- la gioia “frizzante”, attraente, convincente, chiassosa, forte, caratterizzata da intense emozioni…ma di breve durata. È generata da un elemento esterno (un luogo visitato, una persona incontrata, una musica ascoltata, un’immagine vista, un successo ottenuto, una festa a cui si è partecipato, un cibo che si è gustato). Coinvolge la persona a livello sensoriale, obbliga all’espressione, a raccontare subito cosa si prova. Può essere generata anche da momenti di preghiera. Proprio al riguardo i padri spirituali ammoniscono sul rischio di essere troppo concentrati sui sentimenti e sui piaceri che vengono dalla preghiera – sottile ricerca di gratificazione – invece che sulla relazione con la Trinità.
- La gioia “silenziosa”, di cui normalmente non si vede l’origine esatta, è difficilmente riconducibile a eventi esterni, è composta, pacifica, semplice, contemplativa. La persona che la sperimenta vive in comunione con gli altri senza sentire il bisogno di inondarli di parole: una eventuale condivisione matura da sé, a suo tempo e luogo. Più la gioia è intensa e profonda, meno si sente il bisogno di parlarne (si parla solo se gli altri chiedono, non di propria iniziativa). I padri spirituali chiamano questo atteggiamento “sobrietà”; non si percepisce il bisogno di tornare a luoghi speciali o a esperienze precise, perché questa gioia appartiene alla persona, la porta dentro di sé. Questo è l’ambito in cui lo Spirito parla di più. È la sobria ebrietas spiritus cantata nell’inno Splendor Paternae gloriae di S. Ambrogio [1], per ottenere la quale nulla dobbiamo aggiungere noi, è puro riconoscimento di attrattiva: questo è la Liturgia, questo è la vita cristiana.
Vi invito a riflettere su questa distinzione, a pensarci. Se vogliamo essere felici, e sono convinto che tutti lo vogliamo, occorre trovare la strada giusta, perché anche di noi si possa dire che “vi fu grande gioia in quella città”.
La confermazione apostolica del frutto della gioia
E la lettura ci ha pure illustrato come gli apostoli si rallegrano dei frutti della evangelizzazione e vanno a confermare il Battesimo con acqua, arricchendolo col Battesimo in Spirito, mediante l’imposizione delle mani. Capite benissimo che questo è il servizio che i vescovi, successori degli apostoli, devono compiere – uso un’espressione di S. Paolo –, non da “padroni della fede, ma da servitori della gioia” (così prescrive Paolo nella 2 Cor. Cap. 1), ed è ciò che avviene nella Cresima, che avremmo dovuto celebrare nella solennità di Pentecoste, e che siamo costretti a rinviare non si sa a quando. Questo rinvio, tuttavia non ci vieta di essere una comunità aperta allo Spirito, invocante lo Spirito, testimone della gioia dello Spirito. Una comunità che approfondisce il senso del dono Battesimale dello Spirito e coglie la differenza con il dono Crismale dello Spirito, ovvero comprende la dimensione personale delle fede e quella comunitaria. Non ci può essere l’una senza l’altra. Non si può essere cristiani senza una comunità, così come non si può essere vera comunità senza una fede personale matura. Lo afferma chiaramente uno dei martiri del nazismo, D. Bonhoeffer, in “La vita comune”: “Chi non sa restare solo tema la comunità. Chi non è inserito nella comunità tema la solitudine”. Anche questa è una cosa sulla quale vi invito a riflettere.
Plus amari quam timeri (Regola di S. Benedetto)
Questo riferimento allo Spirito è ancora più forte nella pagina evangelica: Gesù ci ha fatto una promessa precisa: mandarci un avvocato, questo è il significato del termine greco “paraclito”. La sua è una presenza eterna, è luce di verità per combattere la menzogna e la ipocrisia erette a sistema, e questo può accadere ovunque, anche nella Chiesa. Dio non voglia che abbia ad accadere questa disgrazia! Non si tratta di una presenza esterna, quella dello Spirito, ma interna a noi, che diventiamo “tempio dello Spirito Santo”. Lo spirito ci aiuta a comprendere e a gustare il Dio che abita in noi e la nostra vita che abita in Dio. Attenzione. Non ho detto solo comprendere, perché con la nostra intelligenza riusciamo a capire un milione di cose, ma di esse, magari non ci importa proprio niente. Dio più che da capire è da amare; è da capire e da amare insieme: “Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui”, lo ha detto Gesù.
Adorare Cristo, rendere ragione della speranza
Ed il motivo e l’input di questa relazione incentrata soprattutto sull’amore ce lo ha offerto Pietro nella 2 lettura odierna. Ed, insieme, ci ha offerto una splendida ricetta di relazione col prossimo: “adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo”. C’è sempre qualcuno che parla male di noi, c’è sempre stato e ci sarà sempre, è uno sport tra i più praticati, ma non è cosa solo di oggi. Pensate che S. Colombano, un monaco venuto dalla lontana Irlanda, e stabilitosi a Bobbio, vicino a Piacenza, nel VI secolo dopo Cristo, in un suo scritto dice proprio queste parole: “la cosa che diletta di più certa gente è il parlare male di qualcuno, soprattutto degli assenti”. Siamo nella metà del VI secolo d. C, voi capite che la storia si ripete tante volte. C’è sempre qualcuno che parla male di noi, non perdiamo tempo su questo, non è il caso di smentirli con le parole, sono più eloquenti i fatti per zittire le malelingue, perché “è meglio soffrire operando il bene che facendo il male”. Beati voi se vi trovate in questa situazione. Nessuno vi promette una gioia frizzante, ma una sofferenza ricca della vita che viene da Dio. Se voi riuscite a “rendere ragione di questa vostra speranza”, riuscite a dirla agli uomini, e riuscite a dirla con mitezza e senza cattiveria o senza risentimento, ma esattamente con la sofferenza e con la Parola, rendete testimonianza e smascherate la cattiva coscienza del mondo, la cattiva coscienza di quel mondo che si ritiene onnipotente, e che proprio per questo pensa di avere il diritto di calpestare la vostra vita, di calpestare la vostra gioia. Nessuno calpesti la vostra gioia, ma Cristo Signore la porti a perfezione, amen.
[1] Christusque nobis sit cibus, potusque noster sit fides; laeti bibamus sobriam ebrietatem Spiritus. (Cristo sia nostro cibo, sia nostra bevanda la fede, lieti attingiamo alla sobria ebbrezza dello Spirito).