OmelieOmelie Ottobre 2020

11 Ottobre 2020 – Tempo durante l’Anno XXVIII Domenica (anno A) – Don Samuele

Tempo durante l’Anno – XXVIII Domenica A – 11 ottobre 2020

 

Sia lodato Gesù Cristo. Sempre sia lodato.

 

Ecco svelato oggi il grande sogno e l’intenso desiderio di Dio: avere attorno a sé tutti i suoi figli, per un immenso banchetto, dove il cibo è la vita stessa, è Lui stesso, Parola e Pane di vita. E come biasimarlo? Quale padre non nutre questo sogno e questo desiderio, quando la vita avanza, e, magari, sente prossima la fine? L’ultimo desiderio che rimane è vedere attorno a sé le persone più care.

 

Il banchetto messianico annunziato da Isaia

Non si tratta di un sogno e di un desiderio nuovi, sono sentimenti antichi. Isaia, come abbiamo sentito nella prima lettura di oggi, si è preoccupato di descrivere nei particolari quello che Dio coltiva nel suo intimo: un banchetto raffinato, degno delle occasioni più solenni; una situazione speciale per distruggere la coltre di oscurità, di tristezza, di male, che incombe sul mondo; il giorno benedetto in cui eliminare la morte per sempre, in cui asciugare le lacrime su ogni volto; la circostanza speciale in cui far scomparire l’ignominia del suo popolo … basta che il Signore parli, e quando Lui apre bocca, quello che dice si realizza, infallibilmente. Un evento tanto unico, profetizzato da Isaia, ha come scopo quello di indurre la speranza, rallegrare il cuore, far scaturire la gratitudine per un dono che nessuno di noi si merita. Vorremmo tutti vedere questo monte innalzarsi, ed avere buone gambe per arrampicarci e partecipare ad una festa cosmica mai vista. Questa situazione qualcuno di noi l’ha vissuta ieri, siamo andati in gita alla pietra di Bismantova, in mezzo a colline basse questa montagna di roccia che si alza fino ad oltre 1000 metri … ci siamo arrampicati fin lassù, con un po’ di sforzo, ma quando si arriva si prova una gioia grande per un panorama che è incredibile. È un’immagine efficace per spiegare questo banchetto dove tutti possono trovare spazio e posto.

 

Il banchetto imbandito dal Padre per la sua Chiesa

Sullo stesso filone di Isaia si colloca la parabola del Regno raccontata da Gesù. Come sempre le sue parabole non raccontano fatti realmente accaduti, ma episodi, talvolta paradossali, con particolari incredibili. Ciò che conta non è il racconto, ma i significati che esso trasmette. Il primo è che il Regno di Dio si può paragonare ad una festa, il che smentisce una visione distorta della fede, come un qualcosa di lugubre e di triste. Oramai, per molti cristiani, la fede cristiana è come il 2 di novembre, il giorno dei morti: c’è la religione dei morti e basta. No, la fede cristiana è la fede della Pasqua, della resurrezione, della vita, della gioia – che non esclude la croce -. Ma, nello stesso tempo, contesta una società dove, l’uomo, sempre più solo con le sue macchine ed i suoi dispositivi tecnologici, una società dove l’uomo è “vestito a festa, ma incapace di fare festa, finisce con il chiudersi in un orizzonte tanto ristretto che non gli consente più di vedere il cielo”, così denunciano i nostri vescovi nel documento “Il giorno del Signore”, che ispira e guida il cammino della formazione permanente degli adulti in questo anno pastorale. Tutti i martedì ci confronteremo con questo. Il secondo significato è dato dalla contrapposizione di due desideri opposti: il Re che invita e vuole tutti alla festa, e tutti che se ne fregano del suo desiderio. È tanto forte la nostalgia del Re di avere tutti con sé, che l’invito lo ripete più volte, e lo motiva, ed esorta, e supplica, e scongiura. Niente da fare, la risposta è il menefreghismo più ostinato, o il disprezzo di chi invita, o peggio, la sua uccisione. Una festa costata sangue: il sangue di tanti ambasciatori, il sangue del Figlio, inchiodato sulla croce non da terroristi criminali, ma dai figli scocciati, che non ne potevano più di sentirsi invitati dal Padre a una festa; il sangue di chi ha svolto la missione di ambasciatore dell’invito (andate a rivedere il film Mission, bellissimo, toccante, forte! Vedere la passione di questi uomini di Dio che vogliono far diventare famiglia di Dio tutti, e trovano contrasti e opposizioni fino al martirio. Se non l’avete visto ve lo consiglio). Il terzo significato emerge quando il desiderio di accoglienza del Re, diventa, a questo punto, una punizione dura e spietata. Lui che voleva tutti, quando viene rifiutato manda i suoi soldati a bruciare la città. Sì, perché, non si può mettere tutto sullo stesso piano, tollerare atteggiamenti e comportamenti criminali, giustificandoli sempre e comunque con un buonismo che è un cancro dell’umanità, peggiore di qualsiasi malattia incurabile. Il quarto significato è un ulteriore messaggio di speranza: anche dove si ha l’impressione che non ci sia niente da fare, anche quando si tocca con mano che ogni messaggio lanciato è come piantare dinamite nel deserto, e sperare che crescano alberi da frutto, fantascienza, Dio non demorde. Se la città ha rifiutato, non fa niente, ci sono sempre i “crocicchi delle strade”, dove si può trovare di tutto e di più. E così, i cittadini ciechi e sordi lasciano il posto a “tutti quelli che troverete … cattivi e buoni”. Ed, effettivamente “la sala delle nozze si riempì di commensali”. A questo punto, se fossimo noi gli autori della parabola, ben volentieri metteremmo la classica formula di conclusione: “E vissero a lungo felici e contenti”. È il finale che tutti si aspettano. Ed, invece, non va a finire così, perché tra gli invitati il Re scorge “un uomo che non indossava l’abito nuziale”. Forza, tutti in coro mettiamoci a difenderlo: “Mica lo sapeva che l’avrebbero portato di forza ad un matrimonio, era ad un crocicchio di strada, ed uno, quando torna dai campi, o va a far spesa si porta il baule con tutta la parure e con l’abito per le nozze?”. Non così si comporta il Re. Prima lo chiama “Amico”, ma, subito dopo, lo tratta come un nemico: “come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. E senza ottenere risposta, il Re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti». A quell’epoca, quando un Re si fosse espresso così, nessuno avrebbe fiatato; oggi, per restare eleganti, ci limiteremmo a dire che il Re è un po’ caratteriale, chi è più sboccato userebbe altri termini. Ma questo è l’ultimo significato importante da cogliere nella parabola: nel Regno di Dio non ci si sta perché ci hanno portati, o ci obbligano, ci si sta solo da uomini liberi. La casa del Padre, che Don Primo Mazzolari descrive, commentando la parabola del figlio prodigo, è tutto fuorché una prigione: è la casa della santa libertà dei figli di Dio, creati liberi, cioè capaci di scelte, di passioni, di fughe stizzite, sbattendo la porta, ma capaci anche di ritorni impensati: “In nessuna casa di quaggiù, anche nella Chiesa del tempo, non c’è il manebimus optime”, eppure “Nella religione ci si sta e ci si resiste alla condizione di sentirsi liberi”. E aggiunge, con sottile ironia sulla situazione politica italiana ed europea di quegli anni: “Forse che il mondo della libertà comincia dove finisce la Chiesa? Non me ne sono ancora accorto: starei per dire il contrario, che la Chiesa torna a divenire il rifugio della libertà”. È, perciò, la casa dove sono possibili anche tradimenti radicali, perpetrati senza muovere un passo da lì, perché si tratta di diserzioni del cuore. La casa del Padre ammette la libertà di chi sbaglia perché se ne va, e di chi sbaglia perché resta, cullandosi nell’autoglorificazione e arrogandosi il diritto di ergersi a giudice dei fratelli, senza accorgersi che, nella vita, è più essenziale assaporare la misericordia del Padre, che rispettare la burocrazia. E così, inoltrandosi nella lettura del volume “La più bella avventura”, si scopre che il fratello maggiore, quello che non ha mai abbandonato la casa paterna, è il più dubbioso sul fatto che l’amore del Padre possa renderlo davvero felice: è rimasto, sì, ma per dovere, per convenienza, perché non ha gli attributi per andarsene, ma non ha capito e non ha gustato niente dell’amore. Uno così potrebbe essere il soggetto senza abito nuziale che il Re allontana. Questo ci deve far riflettere, perché queste parabole smuovono la nostra vita, ci chiamano dentro come protagonisti, e ciò è di grande riflessione per noi: perché io credo in Dio? Per quale ragione sono ancora nella Chiesa? Ci credo e ci sto nella Chiesa? Non ci posso stare perché mi hanno battezzato e poi chi si è visto si è visto! Non ci posso stare perché mi hanno fatto fare la prima comunione e la cresima, e poi chi si è visto si è visto. Non ci posso stare perché … bo, non lo so neanche io il perché. Ci sto perché lo scelgo, perché lo decido, perché lo amo, perché capisco che non ho un’altra casa dove abitare, perché non ho un altro Padre che mi può amare così. Non ho altri fratelli e sorelle, che, tutti i loro limiti, i loro difetti e i loro peccati, sempre formano un corpo che è il Corpo del Signore.

 

Molti sono i chiamati, pochi gli eletti

Il linguaggio politicamente corretto dei buonisti è pronto a correggere la parola “molti” con il termine “tutti”, come anche la parabola sembra dire, ma questo sventurato cacciato ricorda che Dio vuole tutti, ma non obbliga nessuno. Chiama molti, ma non costringe alcuno, anzi, si è abituato, ormai da millenni, ad essere il Dio del piccolo gregge, a subire ingiustificati ed ingiustificabili rifiuti. Dio decide di nascere in un luogo dove nessun genitore farebbe nascere suo figlio (lo domando alle mamme e ai papà che sono qui stamattina): una stalla tra gli animali da cortile … incubatrice, le garze sterili, le mascherine, il gel disinfettante, ma dove???  e come segno di gratitudine l’umanità gli prepara una croce. Dio imbandisce ogni Domenica un banchetto di festa, dove il nutrimento è Lui stesso, per la vita del mondo: è la Messa, e le ragioni che la gente esprime a voce alta per rifiutare l’invito sono mostruose, sconvolgenti, offensive. Non si sa cosa dire, se non “molti sono i chiamati, pochi gli eletti”. Eppure non è Dio, ad avere bisogno di noi, ma noi ad avere bisogno di Lui. Nella Pasqua blindata di questo anno così strano, l’Arcivescovo di Milano, nella sua lettera ai credenti della Diocesi ricordava così quanto sia necessaria la Risurrezione per la nostra speranza: “quando irrompe il nemico che blocca tutto (il coronavirus), che paralizza la città, che entra in casa con quella febbre che non vuol passare, allora le certezze vacillano, e il verdetto del termometro diventa più importante dell’indice della Borsa». Davanti a tutto questo «l’unica roccia alla quale appoggiarsi può essere solo chi ha vinto la morte». La sorgente della nostra speranza e della festa autentica, che non consiste nello sbevazzare e nel dimenarsi bombardati da ritmi tribali – io non ne posso più di sentire parlare al telegiornale della movida, ah se ci manca la movida non abbiamo la libertà, ma scusate, la vita è ridotta ad un campari??? Ma che squallore, ma che squallore! E ci vogliono far credere che questo è il senso della nostra libertà e della nostra festa? Ma io mi ribello a una tale offesa della mia umanità e della mia dignità, e vi invito a fare altrettanto -. Il senso della festa è Colui che ci invita al banchetto del suo Figlio, e ci dona la chiave per svelare l’enigma della storia e della nostra vita, ci offre gratis la sorgente inesauribile della serenità e della pace. Sta a noi crederci, e rallegrarci in Lui, perché come ci diceva Paolo oggi: “Tutto posso in colui che mi dà la forza”.