15 Novembre 2020 – Tempo durante l’Anno XXXIII Domenica (anno A) – Don Samuele
Tempo durante l’Anno – XXXIII Domenica A – 15 novembre 2020
Sia lodato Gesù Cristo. Sempre sia lodato.
Se dovessi fare un commento a botta calda su quanto abbiamo ascoltato oggi dalla Parola di Dio, userei le famose parole di S. Paolo in 2 Tes. 3,10: “Chi non vuole lavorare neppure mangi!”. Una regola che mi piace tanto, e che scriverei ovunque a lettere cubitali. Effettivamente la Bibbia non inculca e non incita mai alla pigrizia, anzi, guarda l’uomo non semplicemente come ‘parte’ della creazione, ma come ‘partner’ di Dio, per continuare a ricreare il mondo. È la migliore forma di gratitudine che noi possiamo esprimere al creatore: valorizzare, incrementare, moltiplicare i talenti che Lui ha deposto nella nostra vita.
Una donna speciale …
Ecco che il libro dei Proverbi ci ha presentato un modello di donna e di femminilità assai lontano dai modelli oggi ricorrenti. Siamo agli antipodi della donna in carriera, o della donna bambola, o della donna oggetto, o della donna esteticamente bella ma vuota dentro, come tanta televisione ce la presenta. La Scrittura vuole parlare della “donna forte”, non semplicemente forzuta, ma forte come quando ci troviamo davanti ad una realtà che ci colpisce, e diciamo: “che forte!”. Non è facile trovare chi dedica la sua vita a rendere felici gli altri, chi lavora volentieri perché non ha schifo del lavoro, chi si dedica normalmente e naturalmente alle opere di carità, chi non si preoccupa dell’esteriorità, ma dell’interiorità, chi fa di tutto per piacere a Dio … una vita così elogia la persona che la fa sua … “che forte!”, in mezzo a tanto squallore di umanità! Dedizione, laboriosità, carità, ripudio dell’appariscenza in nome della sostanza, sono virtù assai raccomandabili, soprattutto nella società che ama definirsi dell’immagine, dell’apparenza, del vuoto e del nulla che la fanno da padroni nei cuori, nelle anime, nei cervelli. Trovate voi gli infiniti esempi per illustrare quanto sto dicendo.
Come utilizzare i talenti?
Anche il Signore Gesù si è preoccupato di ribadire questo patrimonio di valori ricorrendo ad una parabola che è certamente indimenticabile, e che fotografa in maniera realistica la vita di ciascuno di noi. Siamo tutti depositari di un patrimonio immenso di umanità che Dio ha riversato nelle nostre vite. Il problema non sta nel contare quanti talenti ha uno o ha l’altro, il problema è come utilizziamo quanto il Signore ci ha donato gratis. Il problema è di renderci conto se gestiamo tale patrimonio con le virtù della dedizione, della laboriosità, della carità, del ripudio dell’appariscenza in nome della sostanza, o se abbiamo adottato i criteri mondani della saltuarietà in base all’umore, della pigrizia, dell’egoismo o del menefreghismo, della vanagloria, della ostentazione, del mascherare sempre, cose che l’Evangelo chiama con il nome di ipocrisia. Altro problema: tra questi due estremi ci piacerebbe collocare un numero infinito di gradazioni e di sfumature per ricavare il nostro comodo nido, ma la parabola non ammette troppe possibilità: i talenti o si mettono a frutto, o si seppelliscono. Abbiamo già capito tutti la domanda che l’Evangelo sta ponendo alla nostra anima: “i tuoi talenti li stai mettendo a frutto o li stai seppellendo?”. Attenzione: se pensi di cavartela con qualche scusa o con qualche alibi, ricordati due cose. Prima: se li stai trafficando preparati a ricevere un elogio bellissimo: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Ma se ti accorgi che stai soffocando quanto Dio ti ha dato, per il bene tuo e di tutti, allora mettiti bene in mente le parole che risuonano certamente anche per te: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Questo è il nostro Dio, che Isaia definisce “Padre” e “Madre”, perché è capace di avere la tenerezza di una mamma tanto quanto il rigore di un papà, e sempre per il nostro bene. Sì, perché le sue strapazzate non sono mai per umiliarci e calpestarci, ma per prenderci e scuoterci se è necessario, per farci rendere conto dove stiamo sbagliando, per spingerci a ritrovare la via buona e giusta che merita di essere percorsa nella vita. È il Dio che non teme di apparire esagerato, persino ingiusto, come nella parabola dei vignaioli presi a lavorare a diverse ore del giorno, o quando dice di dare il talento recuperato a chi ne ha già dieci. Non sarebbe stato meglio darlo a chi ne aveva quattro? Per noi, forse, ma non per Lui, abituato alla “misura pigiata, scossa e traboccante”. Del resto la ricompensa, per Lui, non è commisurata ai parametri umani: chi lavora un’ora sola prende la paga quanto chi ha lavorato un’intera giornata, e chi porta solo due talenti moltiplicati riceve lo stesso elogio di chi ne porta cinque. Dio non guarda l’apparenza, Dio guarda il cuore. Dio gioisce per i due spiccioli della vedova – perché ha dato l’essenziale – più che per le ingenti somme di chi dà il superfluo. Dio non teme di dire: “il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Avete sentito l’aggettivo? “Inutile”, è una delle peggiori offese che si possano lanciare ad una persona: magari non ha mai fatto niente di male, ma neppure niente di bene. C’era un prete che chiamavano “Don inutil”, cosa si può dire di peggio? È quella categoria di persone che Dante Alighieri chiama ignavi, e non li ritiene degni nemmeno dell’inferno, tanto meno del Paradiso o del Purgatorio, e li definisce “quei che visser sanza infamia et sanza lodo”. Vite sprecate, è uno dei peccati più gravi che si possano commettere, ecco spiegata la durezza del padrone della parabola. Ripeto la domanda, lasciamola risuonare a lungo nella nostra anima: “i tuoi talenti li stai mettendo a frutto o li stai seppellendo?”.
Un giorno che sorprende come il ladro … ma niente paura!
Il giorno del ritorno del padrone, descritto dalla parabola, dal suo viaggio “verrà come un ladro di notte” ci ha ricordato S. Paolo. Imprevisto ed imprevedibile. Attenti a “quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire”. Non si tratta di ipotesi, la pandemia di coronavirus sta mettendo a dura prova la vita e l’economia di singole persone e di stati, di continenti e del mondo. Ve lo dico non per alimentare la paura, anzi, con lo scopo opposto; far crescere la speranza, perché, come ci ricordava S. Paolo, “voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre”. È una gioia ed una grazia sapersi “figli della luce e figli del giorno”. Ma non basta gongolarsi di questa dignità, di questa posizione chiamiamola pure privilegiata! L’apostolo ci ha anche detto cosa è necessario fare: “Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri”. E qui ritorna come esemplare la figura della donna laboriosa evocata dalla prima lettura, e quelle virtù alla portata di tutti che, come cristiani, siamo chiamati a vivere e ad inculcare anche alle giovani generazioni, affinché siano giovani non solo di età, ma di cuore: dedicare la propria vita a rendere felici gli altri; lavorare volentieri, perché non si ha schifo del lavoro; dedicarsi normalmente e naturalmente alle opere di carità; non preoccuparsi dell’esteriorità, ma dell’interiorità; fare di tutto per piacere a Dio … una vita così elogia la persona che la fa sua … “che forte!”, in mezzo a tanto squallore di umanità! Vorrei dire in tutta verità e con grande orgoglio, di tutti voi, “che forte!”.