Letture

Lettera del parroco a chi lavora

Carissimi tutti, che, con il vostro lavoro, continuate l’opera creatrice di Dio, e assicurate pane e futuro a tutti, pace e benedizione a voi. Anche a voi confesso la mia debolezza tecnologica, per cui mi è più facile scrivervi attraverso il sito della Parrocchia, dal momento che non sono pratico di gruppi WhatsApp, un po’ più di comunità.

Non posso che pensare a voi nella imminenza di un giorno che porta il vostro nome, la cosiddetta festa dei lavoratori. Personalmente preferisco ricorrere ad altra terminologia: mi piace guardare al 1 maggio come al giorno per dire “Grazie” a chi lavora, e per tanti motivi.

Il primo grazie va al buon Dio che, dopo avere lavorato per creare il mondo e l’uomo, ci ha dato una intelligenza creativa ed una fantasia inesauribile, una tenacia ed una laboriosità a volte eroiche, per cui, la genialità umana non conosce limiti. Le api costruiscono le loro perfette cellette esagonali esattamente come 5.000 anni fa, noi, in questo lasso di tempo, siamo passati dalle palafitte ai grattacieli. Gli ornitorinchi oggi costruiscono le loro dighe come i loro lontanissimi antenati, noi, in pochi millenni, siamo passati da gesti primitive ai viaggi su Marte.

Il secondo grazie è a tutti coloro che utilizzando bene questo patrimonio, donatoci dal cielo, hanno saputo esprimere il genio in mille modi diversi, dalle grandi architetture ai piccoli elettrodomestici, dai portentosi mezzi di trasporto ai ritrovati quasi miracolosi della medicina, dalle opere d’arte mozzafiato alla tecnologia più sofisticata, dal far fruttificare la terra al trasformare in alimenti gustosissimi quanto la natura ci regala.

Il terzo grazie va a chi lavora indefessamente, volentieri, senza risparmiarsi, senza calcolare il tempo, senza lesinare la fatica, senza preoccuparsi del sacrificio. In queste ultime settimane l’Italia piange – oltre a più di 27.000 morti per il coronavirus – almeno 150 medici, decine di infermieri, volontari, amministratori, sacerdoti, che, per fare il loro lavoro, obbedendo al senso del dovere, hanno sacrificato la vita. Meritano un monumento, oltre al nostro corale grazie di popolo. E in questa terza gratitudine non può avere un posto irrilevante chi deve lavorare doppiamente, per supplire alla latitanza di quella categoria di persone che oggi vengono chiamati “i furbetti”, modo elegante per definire i lazzaroni e gli approfittatori, che trovano scarsa comprensione e accoglienza persino tra le braccia del buon Dio, se S. Paolo è giunto a dichiarare categoricamente nella seconda Lettera ai Tessalonicesi, al cap. 3,10: “chi non vuol lavorare, neppure mangi!!!”. È una regola che andrebbe pubblicizzata in tutti gli ambienti, laici ed ecclesiali.

Un quarto grazie a chi è abituato a lavorare gratis, senza pretesa, e senza nemmeno speranza di ricevere una qualsiasi forma di gratitudine: penso alle mamme, penso ai consacrati, penso ai volontari, penso a tutti quelli e quelle che, in un mondo dove nemmeno i cani muovono più la coda gratuitamente, volentieri, in ogni circostanza, sanno dire una sola cosa: “eccomi, io ci sono”, senza la pretesa che la loro destra sappia cosa ha fatto la sinistra, o viceversa.

Un grazie ulteriore va per chi, in questo momento di grave crisi occupazionale, e per il futuro incerto che si prospetta, sta elaborando nuove prospettive e forme di lavoro. Credo che molti, anche nella nostra comunità, si troveranno costretti a spremere le meningi per inventarsi nuovi lavori, o nuove modalità di lavoro. Questa situazione mi induce a ripescare nella memoria una convinzione che molte volte ho già espresso: Sabbioneta ed il suo territorio, le sue frazioni e le sue persone, hanno potenzialità enormi ed inespresse. Si tratta di una realtà che, per il suo mantenimento, la sua promozione, la sua vitalità, potrebbe occupare quasi tutti i suoi residenti. Come? Bisogna far galoppare la fantasia, bisogna unire le forze, bisogna snellire quella maledetta burocrazia che è un freno perennemente inserito e costituisce la morte di tante idealità e possibilità. La vocazione turistica e all’accoglienza della nostra terra, il ritorno alla nostra terra – che, grazie a Dio, non manca da noi –, possono offrire possibilità di occupazione a chi vede nero il suo futuro. Secoli fa, quando la sensazione generale era che il mondo stesse inesorabilmente arrivando al capolinea, per la caduta del mondo romano, per l’abbandono delle campagne, per le invasioni di orde barbariche, un genio, di nome Benedetto da Norcia, ha saputo offrire una ricetta, condensata in una regola, riassunta in due imperativi: ORA ET LABORA. Preghiera e lavoro, non nemici, ma alleati; non antagonisti, ma colleghi; questi hanno generato la civiltà europea che conosciamo bene. La crisi che stiamo vivendo, per molti aspetti assai simile a quella, può trovare soluzione nella uguale ricetta, nella medesima regola, negli identici imperativi.

A questo proposito trovo necessario aggiungere alcune considerazioni, in primis la necessità che il lavoro, e la dignità di chi lavora, torni al centro della attenzione di chi governa e di chi amministra. Abbiamo bisogno di leggi agili, adeguate, non contraddittorie, realistiche, che garantiscano condizioni umane di lavoro, tempi umani di lavoro, remunerazioni eque ed adeguate per il lavoro prestato. Trovo scandaloso che chi ha delle responsabilità – e magari assolve anche non adeguatamente il compito – percepisca quantità di denaro pubblico che creano voragini nel bilancio dello stato. Trovo vergognoso che chi svolge lavori socialmente “inutili” – non temo di usare questa definizione, lasciando a voi il compito di stabilire quali sono i lavori così definibili – abbia stipendi mensili o annuali che i poveri Cristi non vedranno mai, nemmeno dopo essersi rotta la schiena per una vita. Trovo immorale che vi siano pensioni d’oro e pensioni da fame, e che, di fronte a queste palesi ingiustizie, non vi sia un rigurgito di coscienza e di indignazione collettiva. Trovo indecente che vengano sperperati fiumi di denaro pubblico in opere mai finite, in autentiche cattedrali nel deserto, e non siano realizzati quei lavori necessari al bene della comunità, nelle scuole dei nostri bambini, negli ospedali dei nostri malati, nella viabilità dei nostri automezzi, nei trasporti dei nostri pendolari, nella tutela del nostro ambiente. Trovo osceno che vi siano soldi distribuiti generosamente in bandi di una futilità miserevole e le nostre 18 chiese distribuite sul territorio, un patrimonio inestimabile a disposizione di tutti, non dei soli fedeli, non ricevano se non briciole e, a volte, neanche quelle, quando potrebbero dare lavoro per decenni ad un esercito di professionisti, di giovani.

Un pensiero affettuoso va a chi è disoccupato, a chi non trova lavoro, a chi rischia di perdere irrimediabilmente il posto di lavoro, a chi è precario da una vita, e non può esserlo per la vita. Una delle preoccupazioni e delle occupazioni fondamentali di una società seria dovrebbe essere quella di garantire un lavoro a tutti, soprattutto ai giovani, che, privi di una occupazione stabile, difficilmente possono pensare e desiderare di fare famiglia. Gli spazi mi pare non manchino: si continua a proclamare la necessità di mettere mano ad un dissesto idrogeologico del territorio italiano che puntualmente provoca catastrofi e morti; il bisogno di cura e manutenzione del territorio, sottoposto ad un degrado esponenziale; l’urgenza di intervenire nelle città e paesi per risolvere mille piccoli e grandi problemi; il dovere dell’ordinaria manutenzione che manca … i nostri paesi e città sarebbero un ottimo cantiere a chilometro zero, ma mancano sempre le risorse. E perché non destinare a questi bisogni primari quanto viene inutilmente sprecato? Personalmente vorrei dare a molte persone un dignitoso posto di lavoro, nella gestione delle nostre splendide chiese, del Polo Museale (uno dei motivi per cui è stato istituito è proprio l’intenzione di offrire occupazione a persone che abitano tra noi, e l’ostacolarlo è un tirarsi la zappa sui piedi), ma ci vorrebbe la proverbiale borsa di S. Omobono.

Accanto alla gratitudine per chi lavora, e alla sottolineatura di potenzialità/criticità in ordine al lavoro, in questo giorno dedicato ad ogni persona che lavora, vorrei esprimere un cordiale ed intenso augurio: che il Signore, per intercessione di S. Giuseppe lavoratore – la cui festa è stata istituita da Papa Pio XII proprio per indicare ai lavoratori un modello ed un lavoratore eccezionale – dia tanta salute e tanta benedizione, perché chi lavora possa svolgere la sua attività con scienza e coscienza, con soddisfazione e con la remunerazione giusta e doverosa che il Vangelo di Luca raccomanda al capitolo 10: “l’operaio è degno della sua ricompensa”.

E per dare maggiore autorevolezza al mio augurio, vado in prestito delle profonde parole che il Papa Paolo VI volle pronunciare nella casa di Nazareth, dove era vissuto Gesù, con Maria e Giuseppe, il 5 gennaio 1964, durante lo storico viaggio del primo Papa in terra santa, quasi 2.000 anni dopo Pietro: “ … qui impariamo la lezione del lavoro. Oh! dimora di Nazareth, casa del Figlio del falegname! Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo ma redentrice della fatica umana; qui nobilitare la dignità del lavoro in modo che sia sentita da tutti; ricordare sotto questo tetto che il lavoro non può essere fine a se stesso, ma che riceve la sua libertà ed eccellenza, non solamente da quello che si chiama valore economico, ma anche da ciò che lo volge al suo nobile fine; qui infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello, il profeta di tutte le giuste cause che li riguardano, cioè Cristo nostro Signore”.

Con questi sentimenti e atteggiamenti viviamo il presente ed il futuro che il Signore ci dà da vivere, e preghiamo che la grazia del Risorto, dia luce, calore, energia al nostro oggi e al nostro domani. Dio vi benedica,

Don Samuele

 

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